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I Monti della Tolfa

Ho camminato più volte lungo i sentieri dei Monti della Tolfa, per il piacere di camminare.

Ho attraversato luoghi dove il verde prorompente dei boschi si alterna al profumo sottile e misterioso delle rocce e dove i freddi minerali si sposano con la vita che ne spezza la durezza. Non è solamente il fascino ambiguo di questa terra che mi seduce. Sono i borghi, i conventi, che parlano di storia e di antiche tradizioni; è la presenza di essenze botaniche di ogni tipo; sono le ampie distese aperte che infondono il senso dello spazio e una profonda calma interiore; è la ricchezza mineralogica di questa terra vulcanica che si offre con rarità uniche al mondo. E’ il volto dolce dei Monti della Tolfa, localizzati a nord di Roma, tra il Lago di Bracciano ed il mare di Civitavecchia, dove la potenza trionfante delle bellezze naturali ancora si avverte e fa parte essenziale della storia geologica trascorsa.Il territorio si estende per circa 77.000 ettari tra il basso Viterbese, l’area dei Monti Cimini e il tratto di costa che comprende oltre Civitavecchia, Santa Marinella, Santa Severa e Ladispoli; il territorio dei comuni di Tolfa e Allumiere (27.000 ettari) costituiscono il nucleo centrale del comprensorio tolfetano. Verso nord il comprensorio è delimitato dal corso del fiume Mignone che nasce alle pendici nord-occidentali dei Monti Sabatini e sfocia nel Mar Tirreno a sud delle Saline di Tarquinia.; tra i suoi numerosi affluenti, solo il Fosso Lenta e il Fosso Verginese hanno acqua durante tutto l’anno.Le linee essenziali del paesaggio mostrano, nel complesso, una modesta varietà di forme tanto da far pensare ad un tranquillo evolversi dei processi geologici che le hanno create; appaiono, infatti, come un insieme di rilievi collinari dal profilo delicato e di modesta altitudine non superiore a 600-700 metri, che scendono con fianchi erti su valli aperte. Tra i rilievi più alti, insieme a Monte Maggiore (633 m. s.l.m.) che è la cima più elevata, vi sono Monte Urbano (627 m. s.l.m.), Monte delle Grazie (616 m. s.l.m.), Monte Faggeto (611 m. s.l.m.) e Monte Elceto (609 m. s.l.m.).Ma la complessità geologica dei Monti della Tolfa emerge quando si osservano i domi lavici, tipica espressione del vulcanismo acido che, in molti casi, assumono particolare spicco morfologico nel contesto circostante. Questi rilievi, con versanti acclivi e cime generalmente arrotondate, danno vita ad un paesaggio aspro ed impervio, nettamente contrastante con quello delle aree adiacenti, caratterizzato dalle dolci colline sedimentarie che spesso mostrano i segni di intensi fenomeni di erosione. Bellissimi esempi sono il domo sul quale sorge l’abitato di Tolfa e quello di Ripa Maiale nel territorio di Allumiere.La natura vulcanica di questa terra appare evidente anche quando si è di fronte agli imponenti scavi minerari, ormai abbandonati, con pareti a picco alte decine di metri dove i colori della roccia si uniscono alle vivaci sfumature dei minerali di alterazione. Minerali metallici, solfuri di ferro e piombo, alunite, caolino, baritina, fluorite, sono alcuni tra i prodotti sfruttati sin dai tempi più antichi. Poco lontano dal centro abitato di Allumiere, in direzione dell’Eremo della S.S. Trinità, si trova l’antica Cava del Cimitero dalla quale si estraevano caolino e alunite, minerali che si sono formati in seguito al vulcanismo. Infatti, in quest’area, circa 2,5 milioni di anni fa, si scatenò la furia del fuoco con una serie di manifestazioni vulcaniche che plasmarono profondamente il territorio.L’area vulcanica di Tolfa costituisce la parte più settentrionale del distretto vulcanico Tolfetano-Cerite-Manziate (che comprende anche i Monti Ceriti situati a difesa del tratto più meridionale del litorale di Santa Marinella, e i rilievi circostanti il territorio di Manziana) ubicato al margine occidentale del distretto Sabatino, circa 30 km a nord di Roma. e rappresenta l’espressione del vulcanismo più antico del Lazio. Catastrofiche esplosioni con emissione di lave in nubi ardenti, accompagnarono la risalita di magmi acidi e viscosi molto simili a quelli eruttati dal più lontano vulcano Cimino e profondamente diversi dalle lave dei Colli Albani e dei distretti vulcanici dei Monti Vulsini e Sabatini. La composizione chimica delle effusioni laviche e la temperatura hanno conferito al magma eruttato dal vulcano di Tolfa, un’elevata viscosità che lo ha reso incapace di scorrere per grandi distanze. Questa limitazione ha costretto il magma a ristagnare e a raffreddarsi in prossimità del centro di emissione, formando delle cupole laviche a pianta subcircolare o ellittica: i domi lavici. Ma, come accaduto per tutti i vulcani del Lazio, l’origine del distretto vulcanico di Tolfa è da ricercarsi nella lunga ed affascinante storia di trasformazioni e mutamenti avvenuta nelle ere geologiche ancora più antiche.

Uno sguardo al mondo antico: dalla preistoria alla scoperta dell’allume

L’allume è necessario ai tintori come il pane all’uomo…..

Vannoccio Biringuccio, sec. XVI

Le vestigia archeologiche dei Monti della Tolfa ci rimandano l’immagine di una preistoria misteriosa e intrigante, ci parlano di un’origine le cui tracce appaiono silenziose e quasi imperscrutabili. I corredi tombali lasciano presupporre la presenza di un antichissimo nucleo abitativo, composto da villaggi di capanne la cui economia si sosteneva con l’allevamento degli animali, la caccia e la coltura del farro. Ossa di bovini, cinghiali, maiali, cervidi e ancora semi di cereali e ghiande, asce di bronzo e numerosi impianti abitativi risalenti alle varie epoche sono stati ritrovati a testimonianza della vita preistorica nei Monti della Tolfa, anche se non sufficienti a ricostruire l’antico percorso del paese di oggi. Insediamenti etruschi e ville romane si sono avvicendati su questo territorio così vicino a Roma e al contempo terra di confine culturale aperta alle influenze marinare, alle scorribande dei popoli nordici e a molteplici interessi religiosi ed economici di una società in trasformazione. S. Agostino, dopo la sua conversione al cristianesimo, visitò l’Etruria meridionale e la Tuscia nel IV secolo e la leggenda vuole che abbia soggiornato nell’Eremo della Trinità presso Allumiere, dove, secondo la tradizione, avrebbe messo mano proprio al suo De Trinitate. Dobbiamo aspettare la fine del mondo antico per ricostruire la storia di Tolfa. Le prime notizie concrete relative al nucleo abitativo risalgono all’anno Mille; ciò che appare certo, e che ci costringe ad un salto temporale notevole rispetto alle scarse notizie del passato, è il fasto del paese medievale con la sua rocca, collocato nel cuore dell’antica Etruria dominata dalla signoria feudale e dai rapporti con la chiesa, luyogo privilegiato per la difesa del territorio, sede di lotte e scontri di potere nell’ambito dei tanti conflitti armati in cui era normalmente impegnata la nobiltà Locale. Ludovico e Pietro della Tolfa, che poi acquisirono il titolo di frangipane, furono spettatori della scoperta che rivoluzionò il mondo economico e culturale dell’area tolfetana: l’allume. Furono però costretti a vendere il territorio di Tolfa al Papa, e fu dunque lo Stato Pontificio a gestire il nuovo corso della storia e dell’economia locale.

Oggi, nel nostro mondo, il nome e l’uso di numerosi minerali significa poco o niente per l’osservatore comune, poichè il prodotto finale delle lavorazioni industriali ci arriva gia camuffato e raffinato, tale da non poterne riconoscere l’origine, né è necessario un diretto coinvolgimento dell’attività manuale nella lavorazione dei materiali grezzi. Inolre, l’utilizzo dei prodotti sintetici ha ormai ridotto moltissimo la nostra dipendenza da quell’universo minerario che un tempo dettava le sue condizioni all’economia mondiale. Fino a pochissimo tempo fa, invece, l’importanza di poter disporre di una certa materia prima, e la richezza che proveniva dal possedere giacimenti di minerali utili alla comunità, erano fondamentali, anche perchè il sistema di scambi, le esportazioni e i trasporti non fruivano certo dell’immediatezza e della facilità che contraddistingue l’odierno mercato globale. Sino al Medioevo l’allume, utilizzato soprattutto nell’industria della tintura tessile per fissare i colori e nella concia delle pelli, ma anche per la fabbricazione di alcuni tipi di vetro, per la dissalazione dei merluzzi e come antiemorragico, proveniva dal medio oriente. In Italia, dove si erano sviluppate le manifatture di panni di lana, non se ne poteva certo fare a meno. La sua scoperta sui Monti della Tolfa, intorno al 1460, aprì un’altra era per il territorio, che divenne luogo di imprenditoria e fulcro gravitazionale di un attivo reticolo di commerci. I Papi tentarono di costruire un monopolio commerciale occidentale dell’allume, a scapito dei giacimenti orientali sotto l’egemonia dei Turchi, che fino all’ora avevano dettato le leggi del commercio di una sostanza fondamentale per la vita quotidiana dell’uomo premoderno.

Storia di un modello culturale

Nonostante la fortuita scoperta dell’allume fosse stata la pietra miliare di un cambiamento epocale, il territorio di Tolfa non abbandonò la propria struttura agricola e le attività legate alla pastorizia, in particolare all’allevamento dei cavalli e delle vacche, che così fortemente caratterizzavano la zona e che nel corso dei secoli richiamarono altre attività collaterali di sostegno. Per esempio, durante l’Ottocento, alla Tolfa venne aperta una cava del ferro, e a Cibona fu costruito un altoforno con fornace e fonderia. Un altro settore tradizionale tolfetano legato all’allevamento era la concia delle pelli, che vi fu introdotta nel XVI secolo e per lungo tempo praticata dai maestri artigiani, che hanno reso famosi i manufatti locali, realizzati con il caratteristico cuoio resistente e brunito.

Ma l’attività principale dei locali restava quella legata al lavoro dei campi: l’amore per la vita agreste era in un certo senso inscritto nel destino dei tolfetani, intimamente dipendenti dalla loro terra bella e ricca. Durante il settecento si costituirono corpi organizzati di allevatori, a tutela di una realtà economica e naturalistica così specifica, che si andava consolidando come tratto culturale di particolare forza e incidenza sulla struttura sociale, accanto alla crescita industriale anch’essa specifica generata dall’attività estrattiva. Vi troviamo ben due università, una sorta di corporazioni a tutela delle attività economiche della zona: quella degli Agricoltori o Boattieri, e quella di Mosceria, cui appartenevano gli allevatori di cavalli e vacche destinati al commercio. Nel 1870 sono confluite in un’unica Università Agraria (Università degli Agricoltoria e Possidenti di bestiame), ente di diritto pubblico per la gestione degli usi civici, il cui scopo è tra l’altro la gestione e la valorizzazione del territorio e la salvagurdia della purezza della razza maremmana. Tra Ottocento e Novecento tutti, a Tolfa, possedevano bestie da macello o da soma, magari anche in comproprietà, e anche vigne e cereali da immettere nel circuito del commercio locale. Il rapporto del tolfetano con il suo territorio era ampiamente codificato e organizzato.

Accanto alla forte componente tardizionale agricola e pastorale, Tolfa condivide con Allumiere la storia dell’Aalume e condivide anche la lunga fase di decadenza economica che da esso storicamente dipende: la crisi dell’attività estrattiva iniziò nel XVII e XIX secolo, sia in seguito alla scoperta dell’allume artificiale, sia per l’apertura di giacimenti di alunite in altri paesi, sia per i progressi nell’arte mineraria, che troppo tardi trovarono concreta applicazione nella struttura estrattiva del cosidetto “allume di Roma”, nonchè per la rivoluzione che l’età moderna instaurò nel sistema dei trasporti, che divenne più agevole rendendo accessibili tutte le reti economiche mondiali e di conseguenza permettendo di scoprire un mercato estero più redditizio. negli anni Quaranta del Novecento lo sfruttamento dei giacimenti di alunite fu abbandonato definitivamente. Era l’inizio dell’era tecnologica: Tolfa e Allumiere, come tante altre realtà agricole, artigianali e manifatturiere, cominciano a rivestirsi del ruolo di centri satellite della crescente urbanizzazione. Il progressivo abbandono delle campagne e del lavoro manuale, che interessò la zona a partire dagli anni Sessanta, determinò a poco a poco un mutamento sostanziale negli scenari vitali dell’uomo e un’inversione di rotta nelle priorità economiche e sociali.

Oggi l’economia agricola e contadina non hanno più la stessa connotonazione essenziale di una volta nei Monti della Tolfa, anche se si tratta di attività ancora vive e presenti sul territorio, sia pure con non poche difficoltà tra cui l’impoverimento dei pascoli che un tempo erano mantenuti dalla pratica della coltura del grano. La rivoluzione culturale che ha interessato tutto il territorio italiano ed europeo, ha inciso anche sull’ambiente tolfetano, che attualmente si affida molto al lavoro nel terziario e nei servizi nelle città limitrofe, al commercio, a piccole attività artigiane. In questo contesto, se si eccettuano pochi casi, l’attività agricola è esercitata part-time da soggetti che hanno un altro lavoro o da pensionati. La tradizionale unità del vecchio mondo contadino può essere tuttavia raccontata e rivissuta non solo come un elemento del passato, ma come una realtà che in alcuni casi è ancora sopravvivenza e tradizione. Permane comunque la coesione dell’antico e l’integrità del paesaggio, unitamente alla presenza degli animali-simbolo della zona, i bovini ed i cavalli, consente ancora di individuare e ricostruire un modello sui generis.

Il bovino maremmano è uno dei perni del modello culturale tolfetano nella sua specificità significativa. Attorno a questo austero e imponente mammifero dalla possente mole corporea e dalla particolare forma delle corna, si è sviluppato un rapporto unico che ha coinvolto nel corso dei secoli l’uomo e l’animale. Considerata la struttura fisica di questo bovino, è naturale che sia stato utilizzato soprattutto per il trasporto come bestia da tiro, cosa che riusciva a fare anche in condizioni difficili. La sua presenza ha generato particolari strutture economiche e socilai e una precisa organizzazione dei pascoli e del lavoro, che sono rimaste a caratterizzare la zona, anche se oggi viene allevato prevalentemente per uso alimentare. A testimonianza di questa significativa realtà, ricordiamo che le vacche maremmane venivano registrate anagraficamente col loro nome, indicandone persino gli ascendenti genealogici; il nome indica caratteristiche dell’animale ed esprime il legame con l’allevatore.

Oggi la vacca maremmana è considerata una razza ottima per la produzione di carne, soprattutto in quanto allevata allo stato brado e quindi alimentata esclusivamente con erbe e fieno. Purtroppo i cosiddetti “capi in purezza” vanno diminuendo, ma proprio questa circostanza contribuisce a creare la specifica connotazione culturale di un allevamento inserito così radicalmente nel suo habitat naturale.

Altra caratteristica che accresce e definisce tale specificità è la presenza sul territorio. oltre che del cavallo maremmano, del cavallo di razza tolfetana. Anche i cavalli, come i bovini, presentano caratteristiche strutturalmente adatte al territorio tolfetano, crsciute e adattate in relazione all’uso: sono resistenti, vivaci, robusti, con sviluppate capacità di percorso su terreni scoscesi e rocciosi con cespugli spinosi e rovi, che caratterizzano il paesaggi vegetazionale di questi monti. Il rapporto con l’uomo è stato sempre caratterizzato da una sorta di simbiosi, sviluppatasi durante il lungo procedimento della doma, che richiede un grande affiatamento e notevole pazienza da ambo le parti. le sue caratteristiche fisiche lo rendono inoltre adatto alle corse che tradizionalmente caratterizzano i momenti festivi del territorio della Tolfa. Oggi viene considerato anche un elemento di spicco per salvaguardare e valorizzare le peculiarità del paesaggio tolfetano.

Allumiere la crescita di un villaggio operaio e lo scontro tra due sistemi di valori

La storia di Allumiere è profondamente legata, come ci fa presagire lo stesso nome, all’allume. Il toponimo deriva da Le Lumiere o Le Allumiere, o anche “Le Allumiere delle Sante Crociate”, che indicava il luogo delle cave di alunite, sottolineando che l’utilizzao del ricavato veniva in gran parte devoluto dalla Chiesa all’organizzazione dei viaggi in Terrasanta. Nasce nel 1500 come villaggio degli operai coinvolti nelle attività estrattive, in seguito all’appalto che il banchiere senese Agostino Chigi ebbe nella zona e al conseguente spostamento degli insediamenti per la produzione del prezioso minerale nel luogo dove sarebbe sorto il primo nucleo abitativo. Infatti, in seguito alla preziosa scoperta venne ampliato il porto di Civitavecchia per consentire il trasporto dell’allume, vennero costruite strade e disboscate grandi porzioni di terreno per procurare il legname necessario al funzionamento dei macchinari estrattivi. Sorse nei pressi della “bianca miniera”, in quella che oggi è chiamata contrada La Bianca, alle spalle delle cime più elevate dei Monti della Tolfa, e l’allume impresse una connotazione indelebile al paesaggio e al paese che su di esso stava crescendo: infatti le spaccature delle montagne – che nei primi secoli costituivano il normale sistema di estrazione, poi sostituito dallo scavo di gallerie – e la vita operaia modificarono uomini e ambiente, e innescarono una peculiare storia tradizionale. Al suo interno venivano compiute tutte le varie operazioni legate alla lavorazione del prodotto grezzo, e inoltre vi erano situate le case degli operai. La storia informa che i primi lavoratori dell’allume, tra i quali bisogna annoverare i minatori veri e propri, i conduttori di bufali e di cavalli per il trasporto, i tagliatori di pietra e altri ancora, godevano di una sorta di immunità (franchigia) e libertà di movimento sul territorio, purchè fossero regolarmente impegnati nell’organizzazione lavorativa locale. Da qui il detto T’ammazzo e vo’ alla Tolfa, che lascia più che intuire una densa composizione di malfattori tra i lavoratori del luogo, nell’ambito del quale potevano sentirsi protetti dalla mano della giustizia. Fu proprio questo che permise di creare una solida comunità di base per l’emergente attività estrattiva, convogliando a Le Lumiere un gran numero di persone. Al tempo stesso si tratta di una circostanza che è all’origine del tradizionale dileggio che i Tolfetani riversano sugli Allumieraschi, ritenuti discendenti di una progenie di dubbia onestà.

Solo nel XVII secolo Allumiere potè disporre di una propria chiesa, e a metà del Settecento contava seicento anime. L’indipendenza amministrativa da Tolfa si compì nel 1826, con un nucleo abitativo che riuniva poco più di mille abitanti, e il successivo sviluppo urbanistico ne ha improntato la particolarità e originalità, anche in relazione alla conformità territoriale, con i suoi suggestivi dintorni boschivi e la splendida posizione panoramica. Dal punto di vista delle tradizioni culturali, la vita sociale dei due paesi non ha mai trovato veramente un punto d’incontro, perchè Allumiere non ha avuto il passato agricolo di Tolfa: sorse come centro industriale e minerario, i cui abitanti furono sempre in netta contrapposizione con i tolfetani. le cronache locali conservano una serie infinita di ricorsi, vertenze, cause, lotte intestine, dispetti reciproci che sono intercorsi negli anni tra i due agglomerati. Il centro minerario di Allumiere aveva sottratto ai tolfetani terre, pascoli, sogni di indipendenza e di ricchezza da ottenere attraverso il possesso dell’amata terra. Anche perchè man mano che le cave di allume andavano perdendo di importanza, gli allumieraschi diventavano lavoratori dei campi, e lo facevano proprio su quelle terre ambite dalle antiche famiglie contadine tolfetane. I minatori venivano da ogni parte d’Italia e anche da altre regioni europee, soprattutto dalla Baviera, e avevano modi di vita ed idee completamente differenti da quelle del contadino tolfetano.

Quando Allumiere si costituì come comune la sua composizione risultò subito evidente: solo otto erano le famiglie contadine, a fronte del consistente nucleo formato dagli operai, dai minatori, dagli artigiani impegnati nella lavorazione dei minerali e dagli impiegati delle manifatture. Un altro motivo d’attrito, nella coscienza popolare, era rappresentato dal rapporto con la componente femminile: le donne tolfetane furono naturalmente fatte oggetto di attenzione dai lavoratori allumieraschi, che molto spesso arrivavano in queste contrade senza una propria famiglia e ciò creava elementi di ulteriore discordia tra i gruppi rivali e non favoriva certo le relazioni interpersonali. Oggi, in conseguenza di questo antico portale culturale, notiamo ancora una diversità di fondo significativa, erede dell’antico divario: il tolfetano è più tradizionalista, l’allumierasco è meno definibile e più ribelle, connotato da una notevole etereogeneità di atteggiamenti, comportamenti, valori di riferimento.

L’ultima miniera di allume ha chiuso nel 1941; l’estrazione di pirite si è conclusa nel 1957;, quella del caolino nel 1961, salvo sporadiche attività dell’industria che ne ha preso l’appalto. Viene da sé che i minatori allumieraschi non potevano che essere particolarmente devoti a Santa Barbara, il cui culto era in connessione con le esplosioni delle mine necessarie per aprire le cave. La sua ricorrenza era molto sentita e festeggiata in vari modi dai lavoratori dell’allume, con messe, pranzi collettivi, addobbi con la pianta d’agrifoglio, che è il simbolo dell’allume da quando Giovanni di Castro, nel XV secolo, lo aveva trovato, girovagando per i Monti della Tolfa alla ricerca di possibili risorse minerarie e metallifere, associandolo subito alla presenza di alunite e dunque effettuando per primo la fortunata scoperta. I nomi delle miniere esprimono il legame con la terra, un pò come per i tolfetani il nome delle vacche maremmane manifestano particolari caratteri e specificità tradizionali: c’era per esempio la miniera di Santa Barbara, dove ancora oggi si può vedere un antico altare a lei dedicato, o la miniera della Provvidenza, scoperta fortunosamente quando le altre si esaurirono, e la cui apertura fu detta “provvidenziale”.

Purtroppo non è rimasto molto delle vecchie strutture collegate alle miniere, e pochissime sono al giorno d’oggi le testimonianze dal vivo dei lavoratori dell’allume. Sono voci che parlano con toni nostalgici del vecchio lavoro, forse perchè collegato con la giovinezza e col rimpianto di una prestanza fisica in grado di sostenere il peso di una fatica estenuante e di garantire notevoli sforzi. Sono storie che parlano di esplosioni e crolli, di vecchie gallerie ritrovate e franate, di serate passate a giocare a morra e bere vino, di forti legami e solidarietà tra operai, di lampade al carburo, di gas tossici e soprattutto di tanta umidità, che penetrava nelle ossa, creava situazioni sanitarie precarie ed era all’origine di malsane vecchiaie. E tuttavia i racconti appaiono romanticamente attaccati ad una vita di sogni e di speranze, alimentate dal guadagno fisso a fine mese, che faceva apparire più dura, almeno in gioventù e in condizioni di buona salute, l’esistenza dei vicini tolfetani, “condannati” all’incertezza del lavoro nei campi, percepito come più pesante, più coinvolgente e meno remunerativo.

La Madonna di Cibona: il santuario dell’allume

Tra i vari luoghi di culto presenti sul territorio, abbiamo scelto di dedicare un’attenzione particolare alla Madonna di Cibona, perchè le sue vicende ripercorrono ed accompagnano le relazioni e le divergenze tra il mondo dei butteri e quello dell’allume, e in un certo senso ci consentono di meglio definire ed evidenziare le caratteristiche salienti del modello culturale che stiamo delineando. Il culto di Cibona è legato, nella sua nascita e nel suo sviluppo, alle attività estrattive. Il sito detto Cybona diede il nome alla chiesa, che in seguito è stata denominata, ma solo ufficialmente, Santa Maria del Monte Urbano, acquisendo il toponimo di uno dei più alti rilievi della zona. Sorge al limitare del territorio allumierasco, a poca distanza dalla contrada La Bianca, e nei pressi dell’abitato di Tolfa.

Dal punto di vista culturale, non è un caso che proprio nel Seicento in territorio tolfetano si sia avvertita l’esigenza di creare un nuovo santuario dedicato alla Madonna. Poiché vi era un’immagine che aveva operato un miracoloso getto di sangue cui era stata dedicata un’edicola, nel territorio tra Tolfa e Le Lumiere, attorno ad essa venne edificato il santuario, esempio magnifico di architettura barocca delicata e perfetta. Il Seicento è appunto l’epoca del barocco, testimonianza artistica e culturale di una istituzione ecclesiastica tutta volta a celebrare la propria potenza e i propri fasti, soprattutto con lo scopo di contrastare e mettere in ombra la dilagante opera della Riforma Protestante. La Chiesa Cattolica aveva iniziato una capillare opera di “santuarizzazione” del territorio, partendo dalle piccole località, dai centri di lavoro, dalla devozione popolare. La Madonna di Cibona sorse nel clima di questa azione globale, che mirava a confermare e intensificare la devozione al cattolicesimo puntando sulla forza magica del miracolo e delle apparizioni. Infatti la leggenda di fondazione del santuario recita di un dipinto della Vergine fatto eseguire nella selva dove si lavorava alacremente alle estrazioni: le sue origini sono legate a doppio filo al lavoro nelle cave di allume, perché era stato il magnifico banchiere Agostino Chigi, affittuario delle miniere e devotissimo alla Madonna, a far erigere due secoli prima un’edicola con l’immagine di maria proprio per creare un luogo di culto che potesse soddisfare il bisogni di sacro del nucleo operaio che si andava formando, sul cui luogo sorse dapprima una cappellina e poi la splendida chiesa. Fu un’operazione culturale fondamentale, perché contribuì a creare la coesione di gruppo tra i locali, supportata dall’interessamento di Chigi, che era considerato il principale benefattore della zona e veniva omaggiato dalle maestranze, le quali gli attribuivano il merito di aver impresso una svolta positiva e decisiva alla propria vita.

Altri eventi consolidarono il culto della Madonna di Cibona. La leggenda vuole che un minatore immigrato che aveva perso incautamente tutti i suoi averi, avesse scagliato un sasso contro la sacra immagine, che aveva miracolosamente cominciato a sanguinare dalla tempia, e tracce di questo “sangue” sono state trovate nel corso dei vari restauri cui il dipinto è stato sottoposto. Si racconta poi di una indemoniata guarita dal prodigioso contatto con la Madonna dipinta, e che aveva quindi contribuito a creare la spinta devozionale per l’erezione del luogo di culto.

Il Santuario fu dunque un ulteriore strumento per la Chiesa Cattolica, atto a creare consensi, condivisione spirituale e morale, convergenze economiche e sociali. la sua costruzione si rivelò utilissima per riconfermare il potere totale su un territorio così importante per le vie commerciali, e quindi per l’influenza globale dello Stato Pontificio, considerata in un’ottica universale di recupero del potere temporale minato dai tempi nuovi e di consolidamento economico. L’appalto delle cave infatti fu detenuto sempre da importanti famiglie coinvolte con l’amministrazione ecclesiastica, cosa che d’altra parte consentì alla zona di godere di particolari privilegi. E Cibona come luogo di culto divenne sempre più perno della spiritualità locale e luogo d’incontro di strategie che attraversavano il fatto devozionale per divenire emblema del potere pontificio. La chiesa barocca esprime e riassume questi importanti percorsi storici e culturali. Ci sono anche motivi di carattere più specificatamente locale, che collegano le genti del posto ai santuari mariani, e a Cibona in particolare. La dura vita delle miniere rendeva necessario garantirsi la protezione di un potere trascendente, creae delle stazioni di preghiera di forte valenza simbolica e anche, per la popolazione operaia, trovare punti di riferimento concreti che si ponessero in alternativa ai tradizionali luoghi di culto. La figura di Maria, inoltre, considerata intermediaria tra l’uomo e Dio, ben si attaglia ad una ricerca di grazie, miracoli, risanamenti a carattere individuale, e a costituire la sede ideale di un rapporto personale col divino, in quanto tale portatore di speranze e aspirazioni concrete, intime, gelose, ispiratrici di una religiosità intensamente popolare e diretta.

Tolfetani e allumieraschi, nel corso dei secoli, furono solidali nella celebrazione del culto, una volta tanto accumunati dal desiderio di trascendenza garantito e soddisfatto dalla sacra immagine e dalla fama miracolosa della Madonna. Quando nell’Ottocento Al lumiere si costituì come comune, il Santuario venne affidato alla sua giurisdizione, anche se la cosa provocò proteste e manifestazioni popolari da parte dei tolfetani. Era in gioco una forte devozione unitaria e per questo particolare la sua scissione accrebbe, in un certo senso, gli elementi di divergenza e la rivalità tra i due gruppi sociali.

La memoria della tradizione: l’ambiente del buttero

Molta memoria storica sopravvive nel ricordo dei vecchi tolfetani e allumieraschi: la cultura dei butteri e quella delle miniere di allume si ergono a confronto e creano un’alterità interessante, ricca di storia e di tradizioni, entrambe vive, sia oggi che ieri, entrambe foriere di comportamenti, sistemi di valori, strutture tradizionali che da sempre definiscono e arricchiscono la vita di Al lumiere e Tolfa, paesi-simbolo di questa cultura bifronte. Oggi che la vita lavorativa gravita attorno ai centri urbani di Roma e di Civitavecchia, si può tuttavia dire che la cultura tradizionale locale resta legata a quella gestione collettiva del territorio agricolo e pastorale che ha le sue radici nel passato. Il legame con la terra esprime l’identità sociale dei tolfetani e realizza il senso di appartenenza ad un gruppo con caratteristiche ben definite, che in questo modo ha creato le condizioni ottimali per riconoscersi e affermare un suo significativo modello di riferimento.

Le tradizioni legate al pascolo non hanno più la stessa incisività sociale e culturale di un tempo. Il buttero di una volta si alzava prima del sorgere del sole, si recava alla fontana per lavarsi e andava a lavorare. Intorno alle nove faceva una sosta per mangiare pane e formaggio, o la trista, una zuppa di pane raffermo, aglio e peperoncino, insaporita con l’olio quando c’era, poi proseguiva proseguiva la sua attività fino alle diciotto circa. Alla sera, nella capanna, si mangiava la tradizionale acquacotta, preparata con le verdure di campo, condita eventualmente col lardo e accompagnata da pane e formaggio, o da una fetta di pancetta salata. Preparare l’acquacotta richiedeva tempo, perchè bisognava selezionare erbe e verdure durante il lavoro. L’olio si trasportava anche “sul campo”, per usarlo durante la giornata, e gurada caso il contenitore utilizzato era un corno di vacca, la cui preparazione era piuttosto elaborata. Bisognava metterlo a bollire per ammorbidirlo, e tapparlo convenientemente perchè fosse a tenuta stagna. Nella parte inferiore si poneva un piccolo tappo di legno o sughero, legato con un laccio al corno, il quale in questo modo consentiva la fuoriscita del prezioso liquido in piccole dosi.

Abbiamo descritto questo oggetto per fare un esempio atto a dimostrare la particolarità delle tradizioni legate al mondo dei butteri, un mondo che trovava al suo interno strumenti e modalità di organizzazione e consumo dei beni. Anche le capanne utilizzate per dormire nel territorio dei pascoli, messe a disposizione dall’Università Agraria o realizzate dagli stessi butteri, venivano confezionate con un rituale del tutto legato alla peculiarità territoriale. Per cominciare, se pioveva era necessario aspettare tre notti all’asciutto prima di preparare il terreno. Occorreva quindi una settimana per preparare la spianata che faceva da pavimento alla capanna; si piantava quindi un piro al centro e lo spazio attorno veniva calcolato in piedi (sette, otto piedi era la tradizionale misura…). venivano quindi piantati i passani (travicelle) intorno al cerchio così predisposto e poi si faceva il treccione, con rami di orniello e castagno, disposto intorno all’apertura centrale che faceva da sfiatatoi per il fumo. Il legaccio finale era di sarcio, una sorta di ramo flessibile che poteva essere utilizzato con la funzione di corda. L’esterno veniva rivestito di ginestra, che partiva dal basso, sino ad arrivare al foro centarle. Il tutto si ricopriva di travi, per non far volare la ginestra e per dare solidità alla capanna. Il tetto di travi impediva che la ginestra si sfaldasse e anche il letto, la rapazzola, era assemblato con la ginestra, disposta su una trama di pali di legno e coperta solitamente da coperte o pelli di animali. Il buttero considerava la capanna un importante punto di riferimento nella sua vita lavorativa: vi si narravano storie di vita, racconti, favole di streghe e fantasmi, proverbi, stornelli che costituivano la base di un rapporto interpersonale molto particolare, e davano vita ad una tradizione di componimenti poetici a braccio che caratterizza la terra tolfetana.

Il buttero delle bove si occupava solo di accudire le bestie, mentre il buttero di campagna eseguiva anche il lavoro dei campi, sempre con l’ausilio del bestiame. lavorare la terra per la mietitura e la trebbiatura era forse il lavoro più impegnativo del buttero campagnolo: per questo la sua figura è associata all’idea di una forza fisica particolare. Ancora oggi, il buttero crea e definisce la propria intramontabile specificità, sia pure in forma ridotta e come attività da salvaguardare tra gli antichi mestieri che vanno scomparendo. Egli deve condurre il bestiame, controllare la razza maremmana, foraggiare le vacche per sopperire alle carenze dell’alimentazione allo stato brado, radunare i vitelli per la marchiatura (merca), procedimento attraverso il quale è possibile effettuarne il riconoscimento. viene effettuata in genere quando il vitello ha circa sei mesi, di solito in estate o in inverno, quando è più facile riunire le mandrie sparse tra macchie e boschi. Qualora il bestiame appartenga ad una azienda di grandi dimensioni, viene raccolto e marchiato in una sola tornata. Se però un allevatore singolo possiede un numero rilevante di capi, la marchiatura avviene in più fasi, raccogliendo i vitelli in luoghi diversi e lontani, dove le mandrie abitualmente risiedono.

Questa operazione, che risente della mancanza di grandi spazi aperti atti alla marchiatura, contribuisce a creare un ulteriore legame significativo con il territorio, in qualche modo rispettato, assecondato nelle sue caratteristiche naturali perchè risulti funzionale all’allevamento. Il marchio a fuoco viene impresso sui palettoni (i posteriori) dell’animale e ogni proprietario di bestiame ha un proprio simbolo (merca) che consente di definire l’appartenenza degli animali che pascolano promiscuamente sui terreni gestiti dall’Università Agraria. I vitelli vengono radunati da butteri a cavallo, convogliati nelle recinzioni (i rimessini), legati con una lacciana e fatti “atterrare”; li si blocca piantando le corna a terra e fermando il collo con un ginocchio, perchè è essenziale che l’animale resti immobile per garantire la definizione del marchio e impedire che passi oltre lo strato del derma col rischio di provocare infezioni interne. Il veterinario ne controlla lo stato di salute ed effettua le eventuali vaccinazioni. Altre volte, i vitelli vengono fatti passare e bloccati negli tretti corridoi (incastrini) dei rimessini, dove vengono marchiati e sottoposti a controllo veterinario.

Alla merca è legata la figura tipica tolfetana del mercante di campagna, oggi scomparsa, che riassumeva in sé la specificità di un territorio in cui il lavoro dell’uomo e la sua stessa esistenza sono strettamente legati alla sua fruizione. Il “mercante”, infatti non è un commerciante, ma è il proprietario del bestiame, che ha provveduto a far marchiare a fuoco le sue bestie, vacche, pecore e cavalli, con le sue iniziali. Il mercante doveva affittare una tenuta dedicata all’attività zootecnica e quindi da riservare al pascolo brado, governato dagli infaticabili butteri, che aveva come principali e impegnativi compiti appunto quello della merca e della doma dei buoi.

L’allevamento del cavallo tolfetano è un ulteriore elemento peculiare che ripsetta i dettami della tradizione: bisogna incavezzare i puledri, organizzare la doma, attività che richiede grande abilità e capacità anche per selezionare gli elementi più adatti, e notevole pazienza: la doma infatti dura più di un anno di continue prove che si svolgono all’interno di uno spazzo, rimessino, con al centro un tronco robusto cui bisogna assicurare la bestia da domare. E’ necessaria molta forza, perchè il cavallo resiste pesantemente alla doma. Dapprima bisogna fare la cosiddetta doma di collo, e cioè tenerlo con la lacciana nel rimessino, e solo in seguito lo si può sellare. Anche questa operazione richiede notevole abilità: il cavallo viene assicurato al palo con il collo, per non farlo muovere e abituarlo a sostenere la sella.

In passato le mandrie, sia bovine sia equine, potevano essere spostate da una località all’altra, secondo le decisioni del mercante e le condizioni del terreno. Per questo egli doveva conoscere bene il territorio che costituisce la zona del pascolo: il buttero è ancora oggi, pur nella drastica riduzione degli appartenenti alla sua categoria, colui che incarna la sapienza della terra, il curatore e il principale soggetto atto a tramandarne la particolare valenza e mantenerne vive le tradizioni. Il suo lavoro ha interagito significativamente con la tradizionale lavorazione delle pelli, che aveva preso le mosse dalla produzione dei finimenti, cosciati e vari tipi di selle da lavoro. La tradizionale catana, borsa di Tolfa oggi diffusa come oggetto dell’artigianato tipico, era utilizzata dai lavoratori locali per trasportare pane e lardo con cui arricchire l’acquacotta.

Anche se l’attività del buttero è meno intensa di un tempo, le botteghe artigiane continuano ancora oggi a produrre gli strumenti del mestiere, tra cui spiccano le tradizionali selle da lavoro: la bardella, sella maremmana dalla tipica forma avvolgente che permette di stare comodamente a cavallo per molte ore, e la scafarda chiamata localmente anche “sella da batteria”. Grazie alla notevole bravura ed esperienza dei sellai di Tolfa ed alla sempre maggiore diffusione del turismo equestre, i loro prodotti oggi travalicano i confini del territorio tolfetano e hanno conquistato il mercato nazionale. La qualità del loro lavoro è tale che alcune contrade di Siena commissionano a questi maestri del cuoio selle e finimenti per la Parata dei Cavalieri che si tiene in occasione del Palio.

I butteri tolfetani un tempo si chiamavano “pastori”. Nel territorio della Tolfa, infatti, il termine “buttero” nasce in epoca moderna, quando si afferma la tradizione delle feste e del torneo che li vede protagonisti di una competizione che è diventata parte della tradizione locale. Oggi questa romantica figura, col tradizionale gilet e il cappello che lo identificavano nel suo ruolo, non ha più la stessa rilevanza sociale di un tempo, anche se sono ancora molti a farlo per mestiere. l’attività continuerà ad esistere finchè ci sarà il pascolo brado: il cavallo conserva il suo importante ruolo, quello di aiutare l’uomo a radunare il bestiame al pascolo e spostarlo dalle zone più alte dei monti nel difficile intrico della vegetazione. Altre attività, come il foraggiamento invernale, vengono invece effettuate con i mezzi più moderni come i trattori. La vacca maremmana conta ancora molti capi in purezza, anche se vi sono incroci con tori di razza Charolais finalizzati ad ottenere carni in maggiore quantità, essendo questa razza dotata di “quarti” più sviluppati.

La partecipazione alle fiere e ai tornei consente al giorno d’oggi di indossare il tradizionale abbigliamento, che però assume più che altro un significato rituale, certo non essenziale. Dal punto di vista antropologico culturale si può parlare di sopravvivenza, atta quindi ad essere documentata al fine di preservarne la memoria storica.

Al fine di rintracciare questo significativo percorso che disvela e recupera antichi saperi, facciamo un cenno alle principali occasioni festive che vedono la presenza di tradizioni e riti legati all’allevamento. Di particolare rilievo nell’organizzazione rituale del gruppo è sempre stata la devozione dei butteri per S. Antonio, patrono degli animali, in quanto tale custode e garante della stessa ragione di essere del lavoro di allevatore, al punto che fino alla metà del Novecento, si era soliti attaccare il “santino” alla stalla, a protezione delle bestie. La mattina del giorno dedicato al santo si usava benedire i cavalli in chiesa. Oggi la festa, pur avendo perso la forte connotazione devozionale di un tempo, che ne faceva un elemento funzionale alla vita stessa del buttero col suo essere garanzia contro i rischi della vita pastorale, resta tuttavia uno dei principali momenti di aggregazione rituale della comunità. Oltre alla tradizionale benedizione, il programma della manifestazione prevede una corsa dei cavalli mezzosangue, riti di apertura del carnevale, una corsa di asini e di varie competizioni tra tolfetani a carattere popolare.

La tradizione dell’allevamento connota in generale tutti i momenti festivi di Tolfa, o almeno così è stato fino a quando cause di forza maggiore non hanno costretto gli organizzatori a sopprimere alcune manifestazioni: la processione del Venerdì Santo, per esempio, era accompagnata da una sfilata di cavalli, poi soppressa per motivi di sicurezza. Il mese del “buttero”, ad agosto, consente alla comunità di rievocare i momenti più significativi della tradizione, e di tenere vive le usanze legate all’agricoltura e alla pastorizia, articolandosi in una serie di ricorrenze concatenate. Spicca tra esse il Torneo dei Butteri, che si articola in due fasi, torneo rionale e torneo regionale, a sua volta suddiviso in una serie di sfide e competizioni, individuali ed a squadre. La manifestazione è uno dei fiori all’occhiello della tradizione locale, anche se svuotata del suo significato originariamente legato alla vita lavorativa. Il torneo rionale è considerato una “disputa”, cioè una competizione in rodeo a cavallo tra sei squadre che portano il nome delle contrade del paese, Rocca, Lizzera, Poggiarello, Casalaccio, Sughera e Cappuccini. Sono gare di abilità eseguite in abito da buttero come i giochi degli anelli e dei cappelli, che necessitano di un sincronismo particolare tra cavallo e cavaliere, ed il gioco del vitello durante il quale i cavalieri devono catturare, atterrare, legare e marchiare un vitello assegnato tramite sorteggio.

Nessuno dei partecipanti a queste gare è oggi un buttero nel senso tradizionale della parola. Sono tutti figli o parenti di butteri, o anche abili appassionati di cavalli. Si tratta infatti di competizioni complicate, cui è difficile possano partecipare coloro che non operano nel settore. Ciò contribuisce a rinsaldare il mantenimento di tradizioni, capacità ed attività manuali che hanno bisogno di essere tramandate e conservate. Il torneo regionale si svolge nell’arco di più giornate, perchè prevede una qualificazione e una finale.

I tornei sono preceduti dalla tradizionale Sfilata dei Rioni, una vera e propria rappresentazione rituale che “riattualizza” lungo le vie del paese gli antichi mestieri e le attività tipiche della vecchia Tolfa agricola e pastorale. Non si tratta infatti di un semplice ricordo con funzioni di rappresentanza, ma di un momento di aggregazione sociale nel quale ciascuno si cala, per così dire, in una sopravvivenza, consapevole di ripercorrere le orme di un passato scomparso, ma ancora fortemente significativo e determinante per dare senso alla propria identità. La presenza dei giovani è fondamentale, e conferisce una struttura viatle alla minifestazione, che diviene l’interfaccia del presente con la storia, e la testimonianza del suo valore simbolico e concreto: non solo un segno dell’antico, ma un riconoscimento della forza di un gruppo stretto intorno alla propria specificità.

A luglio si svolge la Rassegna del Cavallo Tolfetano, una manifestazione fortemente connessa alla vita del buttero e al suo legame col cavallo. Prevede incontri e gare di abilità, tra le quali lo sbrancamento dei vitelli, che consiste nel misurare le capacità di isolare dal branco il vitello assegnato alla squadra e condurlo nell’apposito rimessino, e una gimcana equestre riservata ai cavalli di razza. Durante la festa di S. Egidio, patrono locale, si assiste alla corsa di cavalli tolfetani al galoppo lungo la via principale del paese. I cavalieri si sfidano ad eliminazione diretta in batterie di due cavalli l’una con qualificazione, semifinale e finale. la partenza è alla traina, cioè senza gabbie, e questo accresce la tensione e la partecipazione degli osservatori. Il riconoscimento della propria cultura ha realizzato una forma di simbiosi, in occasioni come queste, con l’attrattiva turistica di notevole richiamo, che contribuisce a rinsaldare la coesione sociale e il legame tra le differenti fasce di popolazione, oltre alla consapevolezza di appartenere ad un territorio così fortemente caratterizzato dalla terra, coinvolgendo in particolare coloro che sono attirati e motivati dalle gare di abilità e maestria e dall’affascinante legame col cavallo, e nello stesso tempo suscitando interesse e creando sempre nuovi proseliti.

Possiamo dire in conclusione che il modello culturale che riunisce i tolfetani, gli allumieraschi e il territorio dei Monti della Tolfa appare del tutto degno di essere inserito in un programma di valorizzazione e di salvaguardia ambientale non solo naturalistica, che possa puntare intensamente sull’uomo e sulla sua storia quotidiana, antica e presente, perchè anch’essa costituisce un bene di grande interesse sociale, artigianale, tradizionale, turistico, il cui legame col paesaggio e con l’ambiente continua ad essere fortissimo, appassionante e di grande impatto per il riconoscimento della particolare e suggestiva struttura culturale della nostra regione.


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