I Castelli Romani
Dal vulcano nacque una fertile terra
Bacco ordinò al vulcano di svegliarsi, da troppo tempo, ormai, sonnecchiava nelle profondità marine e lui, il Dio del vino, voleva una nuova e fertile terra dove diffondere il suo nettare divino.
Fu un brusco risveglio perchè, circa 600.000 anni fa, il Vulcano Laziale iniziò la sua attività eruttiva, attraverso una serie di violente esplosioni intercalate da lunghe pause. Piroclastiti, ceneri e lapilli, frammenti incandescenti di roccia delle più svariate dimensioni ma anche colate di lava si depositarono tra la costa tirrenica e la base dei rilievi appenninici. Il magma fuso saliva fino a giungere alle spaccature e ai punti più deboli di quella terra; ribolliva tra le rocce fumanti che lo lasciavano sgorgare dai crepacci e dalle ferite spalancate. nacque così un primo apparato centrale, il Tuscolano-Artemisio. Imponente, con la tipica forma conica debolmente inclinata, largo alla base oltre 60 km, questo ampio edificio estendeva le sue propaggini fin oltre la zona dove sarebbe sorta Roma. Di questo primordiale vulcano rimane oggi solamente una fascia pedemontana di circa 10 km.
La furia del Tuscolano-Artemisio imperversò per quasi 200.000 anni durante i quali eruttò un impressionante volume di materiali, circa 200 km3. le rocce vulcaniche, note oggi con il nome di Pozzolane Rosse o di San Paolo (utilizzate dall’uomo per diversi scopi pratici), sono la testimonianza del ciclo eruttivo più violento ed imponente dell’antico vulcano. 480.000 anni fa, infatti, immani esplosioni accompagnarono colate di magma che si espansero fino a 80 km dal centro di emissione, risalendo le pendici dei Monti Tiburtini fino a circa 400 m di quota. Intorno a 360.000 anni fa l’attività riprese ed un’altra ingente eruzione determinò il collasso della parte sommitale dell’edificio Tuscolano-Artemisio nonchè la fine della sua attività.
Soltanto un breve periodo di quiete separò questa fase eruttiva dalla successiva che vide la nascita di un nuovo piccolo vulcano (fase dei Campi di Annibale o delle Faete, datata tra i 300.000 ed i 200.000 anni). Infine la vita del Vulcano Laziale si spense con un ultimo episodio esplosivo in cui si verificarono eruzioni dai crateri eccentrici di Ariccia, di Nemi e di Albano; quest’ultimo lancò gli ultimi lapilli 20.000 anni fa.
Bacco si sentì soddisfatto, il paesaggio della Campagna Romana era finalmente cambiato. Da 2 milioni di anni egli assisteva ai lenti mutamenti dell’ambiente. Aveva visto il mare invadere a più riprese la terraferma, modellandone le coste; aveva osservato la formazione, la migrazione verso il mare e l’ampliamento del delta del Tevere, che conquistava nuove fasce costiere prima sommerse. Aveva conosciuto la genesi di laghi e lagune costiere salmastre ed infine era stato testimone della nascita dei vulcani, prima nel Lazio Settentrionale, poi nei Castelli Romani e ancora più a meridione nella grande Valle Latina.
Nel corso di circa 500.000 anni, il Vulcano Laziale edificò i Colli Albani attraverso eruzioni catastrofiche ma nel contempo così spettacolari da superare ogni sorta di immaginazione. Aprì larghe e profonde cavità circolari, i crateri, che riempiti poi dalle acque divennero il lago di Albano e quello di Nemi. originò ampi “plateau” di rocce vulcaniche debolmente digradanti dall’area centrale verso l’esterno che, subito colpiti dalla lenta ed inesorabile azione erosiva delle acque correnti, furono modellati e incisi con valli strette e profonde. L’antica e lunga attività vulcanica continuò fino agli albori dei tempi storici, lasciando un’impronta indelebile sul paesaggio naturale della Campagna Romana. l’uomo fu testimone degli ultimi attimi di vita del vulcano e quando la sua furia si placò, presto imparò a conoscerne i segreti. Abitò le sponde dei laghi e utilizzò le rocce vulcaniche come materiale lapideo leggero ma molto resistente per costruire case, necropoli e interi paesi. Coltivò le nuove terre molto fertili, perchè ricche di minerali di ferro e calcio ma soprattutto di potassio e di fosforo, esprimendosi in una produzione agricola sempre più avanzata e diversificata.
Il paesaggio continuò così a trasformarsi.
le parti più ripide e più elevate del vulcano ormai spentosi ammantarono di rigogliosiboschi. Splendide ed estese selve, di cui oggi sono testimoni alcuni nuclei residui come le faggete di Monte Cavo, il Bosco Ferentino a Marino, il Bosco di Ariccia, il Bosco di Nemi, si intercalavano a campi di grano e di orzo, ad alberi di olivo e, soprattutto, a numerosi vigneti. La vocazione di queste terre al vigneto, appare evidente già agli antichi Romani e potè sempre esprimersi in questi luoghi ad alti livelli per la particolare fertilità del suolo, legata proprio alle sue origini vulcaniche. Quando il vulcano laziale lasciò in eredità all’uomo i dolci rilievi collinari dei Castelli Romani, li creò in vicinanza del Mar Tirreno e protetti a nord-est dai rilievi calcarei dei Monti Prenestini e Tiburtini. Questa peculiare localizzazione geografica infulenzò il clima in modo singolare, poichè favorì la nascita di microclimi particolarmente adatti alla coltivazione della vite.
E’ un clima unico quello dei Castelli Romani, perchè influenzato oltre che dalla vicinanza con il mare anche dalla presenza degli splendidi laghi craterici. Questi, con le loro variazioni termiche, determinano correnti ascensionali e quindi venti che mitigano le temperature nei mesi più caldi. Ciò favorisce il prolungarsi della vita delle foglie dei vigneti e, quindi, un’abbondante elaborazione chimica degli zuccheri che nella fermentazione si trasformano in alcool, e il tutto si traduce in un’ottima qualità dei vini prodotti. La stessa funzione di termoregolazione la offrono i venti che arrivano dal mare a tutte le colture impiantate sui versanti che guardano il Tirreno, come avviene per i vigneti di Marino. Quasi tutti giacciono in pendio, ma rivolti verso il mare e inclinati proprio a ponente, così da godere della più lunga esposizione al sole e di un microclima mitigato da una piacevole brezza, rafforzata da quella proveniente dal Lago Albano.
I vigneti che crescono sul versante orientale dei Colli Albani sono, invece, favoriti dalla presenza dei Monti Prenestini e dei più lontani Tiburtini. Come un’immensa muraglia, le montagne bloccano i venti più freddi provenienti da nord e nord-est, mentre i vigneti vengono sfiorati dal live tocco del famoso “ponentino”, che mitiga il calore delle estati romane.
Alla fine dell’estate le viti riposano profondamente, senza più germogliare, tutti i grappoli d’uva hanno raggiunto la maturazione accrescendo il contenuto zuccherino e perdendo parte dell’acqua di cui sono costituiti; tutto è compiuto per preparare un buon vino. Non rimane che scegliere il momento migliore per la raccolta separando le uve sane e migliori da quelle malate. Dopo la vendemmia, rigorosamente manuale per le uve di maggior pregio, i grappoli d’uva vengono piagiati. Inizia quindi la vinificazione vera e propria, condotta con sistemi differenti a seconda del tipo di vino che si desidera produrre: vini rossi o vini bianchi.
Per molti secoli, il vino ha rappresentato per l’uomo l’unica bevanda corroborante cui far ricorso per allievare gli innumerevoli disagi che caratterizzavano la vita, soprattutto durante il Medioevo. Calmava i morsi della fame e proteggeva dal freddo i viandanti, era l’unico nettare divino per far fronte anche alle superstizioni e alle paure che dominavano gli animi nei “secoli bui”. All’epoca, anche quando nel resto d’Italia l’agricoltura era ridotta in condizioni di mera sussistenza, i Castelli Romani rappresentavano una vera e propria “isola a coltura”, dove la produzione agricola, prima fra tutte la coltivazione della vite, si esprimeva sempre con crescente intensità.
Oggi, il vino dei Castelli è divenuto anche messaggero della storia naturale del territorio che lo produce e delle sue tradizioni culturali. Infatti, nessun altro prodotto della terra come il vino viene determinato e personalizzato nelle sue particolari qualità, dall’influenza del clima e dei diversi tipi di suolo, dai tradizionali metodi colturali e, infine, dall’armonia tra varietà e ambiente.
Un itinerario nella “natura che non c’è”
…….questo è il cammino
e poi dritto fino al mattino
poi la strada la trovi da te
porta all’isola che non c’è
C’è un territorio di vaga bellezza, fatto di paesaggi nascosti, di colline vulcaniche e di boschi incantati, di laghi, di piccoli paesi e di tradizioni millenarie: è il territorio dei Colli Albani. Sono i dolci rilievi che circondano Grottaferrata e Frascati, Genzano e Rocca di Papa, sono ciò che resta dell’antico Vulcano Laziale. Ma sono anche i Castelli Romani, tanto apprezzati all’epoca dei Romani per le qualità climatiche e paesaggistiche della zona e così denominati nel Medioevo per indicare i centri abitati che si formarono sotto il dominio dei signori feudali. Castelli e rochhe hanno dato il nome ad alcuni celebri centri della zona quali Castelgandolfo e Rocca Priora ed intorno ad essi molto è da scoprire: i monumenti, l’arte, le tradizioni, ma soprattutto la natura. Una natura, quella dei Colli Albani, che ha subito ogni sorta di violenza da parte dell’uomo ma che conserva ancora molti degli aspetti tipici del suo paesaggio originale.
Percorrendo la Via Appia, dopo 15 km dalla periferia sud-orientale di Roma, si giunge verso l’area centrale del Vulcano Laziale. Appena fuori dell’abitato vero e proprio della città, la fisionomia della complessa struttura vulcanica appare l’elemento dominante del paesaggio. In lontananza è visibile la cima del cono di scorie di Monte Cavo, che sorge a 948 mt. sul bordo della caldera dell’edificio delle Faete e, più in basso, è possibile scorgere ciò che rimane dell’antica cinta tuscolano-artemisia.
La Via Appia si presenta con il suo classico aspetto rettilineo, che continua nel tracciato romano ininterrottamente per 90 km fino a Terracina. A partire dal Mausoleo di Cecilia Metella (a 3,1 km da Porta San Sebastiano) la strada decorre su una colata di lava che nel complesso è lunga più di 11 km e che si estende fino all’area di Marino (è stata riconosciuta in località Frattocchie). Si tratta della colata di Campo di Bove, la più famosa dei Colli Albani. L’effusione che la originò avvenne circa 260.000 anni fa, in concomitanza con l’attività che diede vita la cono centrale delle Faete. La continuità di questa estesa colata di lava, che collega idealmente la città di Roma con l’area vulcanica, è mascherata dai prodotti esplosivi che sopraggiunsero dal cratere di Albano, di più recente formazione. I Romani sfruttarono questa via preferenziale naturale per la costruzione dell’Appia, mostrando con magnifica evidenza la loro arte nell’ingegneria stradale.. Osservarono rigorosamente le caratteristiche geologiche delle aree attraversate, scelsero le direzioni più brevi e più dirette, prossime ai luoghi più adatti sia per l’approvigionamento dei materiali stradali, sia per la disponibilità dei servizi, in primo luogo per l’acqua.
Attorno alla strada, le coltri di tufo eruttate dal Vulcano Laziale e incise dall’acqua in valli piccole e strette, delimitano ampi spazi aperti, coltivati o lasciati a pascolo, inframmezzati da esili lembi di macchia. L’immagine rievoca antiche atmosfere, quando per molti secoli le vaste estensioni dei latifondi dominavano il paesaggio dell’agro romano.
Proseguendo nel cammino, l’Appia incontra la Via dei Laghi che conduce a Marino, uno dei più celebri centri di interesse dei Castelli Romani. Ma oltre alla tradizionale sagra dell’Uva, alla famosa fontana dei Mori ed allo storico palazzo Colonna, Marino racchiude un’attrazione naturale meno nota ma di più sottile interesse: il bosco Ferentano. Resta soltanto una parte di di questo antichissimo bosco, un tempo sacro luogo d’incontro dei popoli latini e durante il medioevo regno incontrastato dei briganti. E’ noto anche come macchia della Faiola, termine dialettale che allude alla ricchezza dei faggi di cui era essenzialmente costituito.
Fino al XVII secolo i boschi ricoprivano gran parte dei rilievi dei Colli Albani. Il fertile suolo vulcanico ricco di elementi preziosi per la vita vegetale, assieme ad un clima alquanto umido, favorirono lo sviluppo di grandi foreste di faggio, di boschi misti e cerrete. Oggi, gran parte delle foreste originarie sono state sostituite dai castagneti, ma ancora numerose specie arboree o arbustive come l’agrifoglio, il tiglio, il nocciolo, l’acero campestre, il carpino nero, la vitalba nonchè qualche piccolo popolamento di faggio accompagnano i castagni.
Camminando per la Via dei Laghi si giunge a Rocca di Papa, da qui, percorrendo la Via Sacra, si sale sulla cima solitaria e misteriosa di Monte Cavo. E’ questo il nome attuale del “mons Albanus” dei Romani, luogo di culto antichissimo consacrato a Giove Laziale, che dalla vetta dominava tutta la regione. I tratti di basolato romano si riconoscono ancora tra i pochi faggi secolari, unici superstiti dei rigogliosi boschi che popolano la montagna. L’ascesa a questo storico colle, ormai ridotto ad una disordinata selva di antenne televisive, offre la possibilità di ammirare panorami di notevole suggestione. Osservando dall’alto lo sguardo spazia sulle colline del vulcano ormai spento; poi scende a posarsi sugli antichi crateri, da Valle Marciana, sotto Grottaferrata, ai laghi di Albano e di nemi e, ancora più lontano, l’immagine abbraccia la piana tirrenica, fino alla costa. Infine, ai piedi del Vulcano si estende tranquilla Roma, contornata dalle sue dolci colline fino al cono di Vico, che la racchiudono verso nord. A Rocca di Papa ha sede il Parco Regionale dei Castelli Romani, istituito per tutelare l’integrità dell’ambiente naturale e culturale di questo territorio così particolare, ma fragile perchè troppo sfruttato. L’antropizzazione sempre crescente e le profonde trasformazioni subite dalla vegetazione originaria hanno impoverito estremamente la fauna che popolava questi luoghi. Sono presenti l’istrice, lo scoiattolo, il ghiro, il tasso e la lepre tra i mammiferi più importanti, mentre molti uccelli acquatici continuano a sostare sui laghi durante le migrazioni. L’Ente Parco è impegnato in diverse attività di valorizzazione e promozione del territorio, attraverso programmi di attività didattica e di partecipazione a progetti comunitari. Sentiero natura attrezzato, Area dedicata agli uccelli selvatici, Stagno didattico, Giardino delle farfalle, Ecomuseo: sono gli strumenti con i quali il Parco dei Castelli Romani offrirà ai visitatori la possibilità di conoscere e di interpretare i valori storici, culturali e naturalistici del territorio.
Tornati sulla Via Appia s’incontra il bivio per castelgandolfo e per il Lago Albano. Questo bellissimo lago craterico è allungato in direzione nordovest-sudest, con un bacino che misura 3,250 km in lunghezza per una larghezza massima di 2,250 km, una profondità massima di 170 m ed una circonferenza di circa 10 km. Il lago è formato dalla coalescenza di 4 o 5 forme crateriche relative a differenti cicli eruttivi, tutti altamente esplosivi. La grande prevalenza della componente volatile, cioè di gas, presente nei materiali eruttati, venuta a contatto con l’acqua, rese ancora più catastrofiche le esplosioni che diedero origine al cratere di Albano. Questo si formò così sul finaco occidentale del precedente cratere dei Campi di Annibale. la riva sudorientale del lago è percorsa da un lungo sentiero che porta ad una fonte di acqua minerale. Si cammina tra la boscaglia, ammirando splendidi scorci tra la rigogliosa vegetazione che ricopre questa sponda del lago. Dopo aver visitato il Lago Albano, è d’obbligo una sosta al vicino Lago di Nemi. La conca che lo racchiude è ricca di una vegetazione folta e varia. La fascia più bassa è ricoperta da canneti e querce, mentre quella mediana ospita mandorli, fichi e ulivi. In alto gli ampi prati lasciati a pascolo sono a tratti interrotti da solitari pini, aceri e lecci secolari. In primavera fioriscono i bucaneve, le pervinche, le violette e i ciclamini. E poi, qundo il clima diventa ancora più caldo, sbocciano gli anemoni, le primule e i narcisi, fino all’apparire delle dorate ginestre, in un meraviglioso insieme di colori e di profumi. A disturbare il fascino e l’armonia di questo piccolo lago vulcanico è, ancora una volta, la forte antropizzazione. Il territorio nemorense presenta oggi, accanto ai prodotti spontanei come le celebri fragoline di Nemi r gli altrettanto famosi funghi porcini, una gran quantità di serre che consentono una notevole produttività agricola, ma che alterano inevitabilmente l’equilibrio dell’ambiente naturale. Ma le acque del lago, violate dagli eccessivi scarichi urbani e dai fertilizzanti dati con troppa generosità alle coltivazioni, vivono ancora: un angolo di natura dal colore azzurro intenso, così appare oggi il Lago di Nemi, che tanto ispirava i viaggiatori dell’Ottocento a cantarlo come un “sogno di poeta”.
Oltre la zona dei Colli Albani punteggiata dai bacini lacustri, si estendono i Colli Lanuvini, ai confini della pianura costiera. Il fertile terreno vulcanico e il clima peculiare, influenzato dalle correnti del Lago di Nemi e dal vicino mare, hanno da sempre permesso al territorio di Lanuvio di esprimere le sue ineguagliabili doti per la coltura della vite. Il finco del colle sul quale sorge il paese di Lanuvio conserva ancora l’assetto agricolo che lo caratterizzava durante il periodo medievale. Le coltivazioni presentano caratteri ormai dimenticati come le viti sostenute dalle tradizionali cannucce, mentre gli olivi si mostrano potati a calice, con la particolare chioma rotonda con il vuoto al centro. Anche i Colli Lanuvini hanno subito lo stesso destino degli altri Castelli Romani, poiché i lavoro di disboscamento hanno alterato gran parte dell’equilibrio naturale dell’ambiente. Ma la natura esiste ancora, in piccoli lembi di paesaggio inalterato. Il Fosso di Santa Martinella ospita alcuni nuclei relitti di verdeggiante alloro. In primavera i boschetti di alloro si colorano del giallo intenso dei suoi fiori piccoli e profumati. In prossimità del torrente, i folti cespugli di viburno si arrampicano sulle rocce e, quando arriva le strade, le bacche del sambuco ornano un pò ovunque le rive del fosso, raccogliendosi in grappoli densi e neri.
Usciti da Roma dalla Via Tuscolana, si arriva direttamente a Frascati. Il paese sorge sui prodotti eruttati dal Vulcano Laziale durante la prima fase della sua attività, quella che portò alla nascita dell’edificio Tuscolano-Artemisio. La natura a Frascati è racchiusa nei parchi delle storiche ville: Villa Falconieri e Villa Aldobrandini. Connubio di Giardino Italiano e bosco, le vuille sono oggi memoria di una natura ricostruita e riorganizzata, piccolo insieme di testimonianze che può guidarci a riscoprire le potenzialità del nostro paesaggio.
Protagonisti, nel bosco della Villa Falconieri, sono antichi ed imponenti lecci, tra i quali si erge un grandioso esemplare di pino domestico con circa 4 metri di circonferenza e con una chioma di oltre 40 metri, risalente all’origine del parco. Si possono ammirare un platano secolare ed un cipresso di inusuali dimensioni, assieme ad una grande varietà di piante tra cui l’agrifoglio dalle bacche rosse, il viburno-tino e l’alloro con le sue foglie lucenti ed aromatiche. Anche il bosco della Villa Aldobrandini raccoglie innumerevoli specie vegetali, tutte piantate dall’uomo. Cedri del Libano si accompagnano a lecci, aceri campestri e tigli, in una mirabile scenografia che mostra uno dei migliori esempi di “giardino all’italiana”.
Da Frascati è possibile raggiungere un’altra singolare e preziosa rarità naturalistica: il Cerquone. Si tratta di un grande bosco, come ce ne sono tanti ai Castelli, ma questo ha conservato intatta la vegetazione di cui è costituito. E’ un fitto insieme di querce d’alto fusto a tratti interrotto da splendide radure contornate da alberi secolari, con cerri, farnie, roverelle e diverse varietà di piante tipiche del sottobosco di quercia.
C’é ancora molto da scoprire percorrendo le antiche vie consolari, per raggiungere i castelli e ritrovare ritmi e tradizioni che fanno parte del nostro passato, camminando per i mille sentieri appena accennati in mezzo ai boschi per osservare le trasformazioni dell’ambiente al susseguirsi delle stagioni. Passeggiando lungo le sponde degli affascinanti laghi vulcanici per riposare l’udito al suolo lieve delle foglie, dell’acqua, del vento ed educare i nostri sensi alla diversità dei colori, degli odori, dei sapori di cui le nostre città sono troppo avare, si può viaggiare in quest’oasi naturale della quale per molti aspetti resta solo il ricordo, un'”isola che non c’é”, come quella famosa di Peter Pan, ma che tuttavia rivive nei suoi boschi, nei suoi laghi, nelle sue dolci colline, che rammentano al viaggiatore il tocco meraviglioso di una natura splendida e antica.

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